CONSORZI (IN)STABILI

Brevi considerazioni sulla precarietà imprenditoriale di alcuni consorzi stabili: quelli privi della prevista “comune struttura di impresa” che, dopo essersi aggiudicato un appalto, vanno in giro per l’Italia alla ricerca di un nuova consorziata che possa eseguirlo.

Nell’era della selvaggia semplificazione degli appalti, del mancato rispetto dei principi di trasparenza e pubblicità e dell’abuso di procedure negoziate organizzate a tavolino, affrontare questioni prettamente giuridiche e di nicchia può apparire una mera perdita di tempo. Tanto più se, tali questioni, riguardano il far west della fase esecutiva che non interessa a nessuno dei cd. “controllori” (interni o esterni), ormai autoridottisi a semplici spettatori distratti di perizie di varianti approvate sottobanco, cessioni di appalto più o meno evidenti, palesi violazioni degli obblighi contrattualmente assunti dall’appaltatore e di piccoli e grandi abusi (apparentemente) depenalizzati per garantire impunità penale e contabile ai pubblici ufficiali preposti alla conduzione dell’appalto.

Ciò nonostante, nel tentativo di dare risposta a numerose richieste di parere pervenuteci, abbiamo deciso di iniziare una serie di focus sui consorzi stabili e su particolari aspetti della loro operatività.

Al riguardo, va subito detto che – pur non potendo negarsi che spesso «è accaduto che due o più operatori economici, pur non essendo legati da una struttura e da un’organizzazione compatibile con il modello giuridico di riferimento, si riuniscano tra loro, qualificandosi come consorzi stabili, al solo fine di godere dei benefici che l’ordinamento ha attribuito a tale istituto» e che «si riuniscano sotto strutture consortili fittizie (capaci di simulare la presenza di requisiti strutturali e operativi mediante l’utilizzo di atti costitutivi già predisposti o comunque recanti “formule tipo”) che poi, nella sostanza, costituiscono vere e proprie ‘scatole vuote’» la storia recente dei consorzi stabili non può essere liquidata solo come “una pratica elusiva di successo.

Ed anche se, nell’esperienza concreta, l’elusione dei presupposti di esistenza del consorzio stabile è più frequente di quanto si possa pensare (c’è perfino chi ammetta, nel proprio statuto, che in realtà la “comune struttura d’impresa” altro non è che lo svolgimento di mere attività promozionali e di coordinamento per incrementare il business delle singole consorziate e di non meglio specificate “consociate”…), occorre considerare che i consorzi stabili hanno, comunque, assolto ad un’importante funzione di accesso al mercato e di tutela di tante micro, piccole e medie imprese italiane che le maggiori stazioni appaltanti vorrebbero tener fuori dalle gare di appalto.

Come abbiamo già avuto modo di denunciare infatti, grazie soprattutto alla sciagurata pratica dell’accordo quadro all’italiana (contratti pubblici affetti da nullità manifesta per assoluta indeterminatezza dell’oggetto che ANAC pare voler continuare a tollerare), le stazioni appaltanti strutturano, ormai dal 2016, le regole di gara in modo non rispettoso dei principi di libera concorrenza, imparzialità e par condicio ed hanno, progressivamente, dato luogo alla formazione di un vero e proprio “mercato chiuso” fatto di pochi concorrenti. E in tale ambito, i consorzi stabili rappresentano, da un lato, l’unico modo per mantenere in attività una miriade di imprese (che, altrimenti, non potrebbero sopravvivere) e, dall’altro, uno strumento per il progressivo innalzamento del livello imprenditoriale italiano.

Ma torniamo al merito del presente intervento, partendo da una domanda: qual è la differenza tra fondamentale tra i consorzi ordinari disciplinati dal codice civile e quelli “stabili” dell’art.45, comma 2, lettera c) del codice dei contratti?

Ai sensi dell’articolo 2602 c.c.. con il contratto di consorzio più imprenditori creano un’organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese mentre, nell’articolo 45, comma 2, lettera c) del D.Lgs. 50/2016, ci si spinge oltre, in quanto è necessario che i consorziati istituiscano una “comune struttura di impresa” senza limitarne l’utilizzo alla gestione solo di alcune fasi delle attività dei consorziati. Per altro verso, l’articolo 2082 c.c.. definisce l’impresa come l’attività svolta dall’imprenditore “un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio ….. ” e, quindi, la comune struttura di impresa non può che essere la predisposizione di un’azienda comune.

Da tale impostazione deriva che i soggetti che decidono di creare un consorzio stabile devono (o, meglio, dovrebbero) realizzare, concretamente, anche una comune azienda. Un circostanza di non poco conto che pone una netta distinzione con il consorzio di stampo codicistico (che prevede la creazione di un’organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese) e con l’istituto dell’associazione temporanea di impresa (per la quale non è prevista neppure alcuna organizzazione comune). In entrambi i casi, gli operatori economici  mantengono la propria individualità e autonomia e non instaurano alcun legame profondo, come invece deve accadere nel caso del consorzio stabile ove, grazie alla creazione di una comune struttura di impresa, si realizza una forma associativa  impegnativa e duratura tra gli imprenditori che non conosce omologhi all’interno dell’ordinamento.

La “comune struttura di impresa” è rimasta in alcuni casi, infatti, una vera e propria chimera e l’esperienza quotidiana pare dimostrare le stesse consorziate – che liberamente hanno “stabilito di operare in modo congiunto nel settore dei contratti pubblici” e che, a tal fine, la hanno teoricamente istituita) – nella stragrande maggioranza dei casi (per non dire sempre) neppure si conoscono direttamente…

Anzi, spesso sono acerrime nemiche che non si incontrano neanche una volta all’anno per un’assemblea e che hanno aderito al “Consorzio stabile Vattelapesca” al fine di sfruttare le sue maggiori qualificazioni virtuali solo e quando occorra; e, in questo caso, chiedono di essere indicate come imprese esecutrici di appalti multimilionari nell’ambito dei quali, se non avessero appunto aderito al Consorzio, non potrebbero svolgere neppure il ruolo di subappaltatori.

La comprova di tutto ciò è rinvenibile in una serie di circostanze oggettive, difficilmente confutabili:

  • la “comune struttura di impresa” altro non è, quasi sempre, che un ufficio elegante e accogliente popolato di segretarie e di collaboratori che si occupano di incombenze amministrative e, nel migliore dei casi, della predisposizione di offerte;
  • assenza di operai;
  • assenza di mezzi, macchinari e attrezzature necessari per eseguire alcun lavoro, anche il più semplice;
  • assenza di magazzini e centri logistici di stoccaggio di materiali, semilavorati e forniture da porre in opera;
  • bilanci di esercizio dai quali anche un iscritto al primo anno ragioneria comprende che il Margine Operativo Lordo MOL (EBITDA) o, perfino, il Valore Aggiunto è, quasi sempre, pari a zero;
  • governance di esclusiva competenza di uno specifico gruppo societario o familiare.     

Lo ripetiamo, AppaltiLeaks non nutre alcun pregiudizio per i consorzi stabili, anzi.

Ma chiunque abbia un minimo di esperienza nel settore non può certo negare che questa sia la realtà di un particolare gruppo di consorzi stabili. O meglio (in)stabili.

E, in questo casi, il problema che si pone in questi casi, non è stare a sindacare se il consorio stabile sia di fatto un consorzio ordinario con attività esterna o meno, bensì un altro; molto più grave e che non può essere ulteriormente taciuto deribante dal fatto che, a causa della perdurante vigenza dell’art. 94, comma 1, del DPR 207/10, il consorzio stabile – pur acquisendo una soggettività, diversa e autonoma, rispetto alle proprie consorziate (che gli consente di partecipare direttamente alle gare pubbliche grazie alle qualificazioni acquisite per mezzo di un semplice atto notarile) – non è obbligato a eseguire direttamente i lavori allo stesso aggiudicati perchè può provvedere all’onere dell’esecuzione delle prestazioni contrattuali anche per il tramite di una o più imprese consorziate.

Da ciò ne deriva, come ci hanno segnalato, che alcuni consorzi – tutt’altro che ‘stabili’ – operano e prosperano secondo un paradigma che nulla a che vedere con tale tipologia di operatore economico: nella fase di gara, prescindono totalmente dalla proprie consorziate (o, tuttalpiù, ne indicano una di esse solo per mere finalità formali per, poi, sostituirla prima di firmare il contratto) e, una volta aggiudicatosi l’appalto, si pongono il problema di chi debba eseguirlo: o ‘mettono in gara’ i propri consorziati o, peggio, cercano di reclutare nuove imprese cui affidare i lavori, previa loro adesione alla compagine consortile.

Insomma, più che un consorzio stabile, una sorta di general contractor simulato che fa i propri esclusivi interessi e non di coloro che l’hanno (in teoria) partorito; un mostro giuridico privo di una reale struttura imprenditoriale e, quindi, assolutamente incapace di eseguire direttamente i lavori appaltati o di realizzare l’opera senza far ricorso a nuovi consorziati raccattati per strada. Un po’ come fanno i buttandentro davanti ai ristoranti turistici.

Se tutto ciò è vero, l’indicazione, in fase di gara, delle consorziate assume un’importanza fondamentale così come, salvo casi particolarissimi, l’immodificabilità della loro designazione.

Attenzione. Qui non parliamo del problema della contestuale partecipazione del consorzio e di una consorziata non indicata come esecutrice né, tantomeno, del divieto di partecipazione di tutte le consorziate allorquando il consorzio abbia partecipato in proprio (ossia non abbia espressamente designato nessuna di esse per l’esecuzione). Questi sono tutti aspetti di mero formalismo bizantino e divieti tipici dell’ipocrisia amministrativa attraverso i quali ci si illude di contrastare le turbative d’asta, la formazione di cartelli di impresa e il consolidamento di un unico centro decisionale tra due o più concorrenti.

Ciò che stiamo trattando verte, invece, sulla possibilità (incredibilmente tollerata anche dalle stazioni appaltanti) di ammettere non solo una troppo agevole sostituzione della consorziata esecutrice da parte del Consorzio Stabile ma anche, e soprattutto, una sua indicazione postuma; tanto più assurda e pericolosa se la consorziata in argomento sia stata ammessa nella compagine consortile addirittura dopo la conclusione delle operazioni di gara.

C’è chi ritiene si possa, senza troppi problemi, provvedere alla sostituzione della consorziata, originariamente, indicata come esecutrice sia nella fase della gara quanto in quella di esecuzione del contratto. Chi propugna questa tesi, parte dal presupposto che il consorzio sia l’unico titolare della posizione giuridica correlata alla partecipazione alla gara e/o all’eventuale aggiudicazione e/o all’eventuale titolarità del contratto e che, la sostituzione dell’impresa indicata non rileverebbe in alcun modo perché, comunque, non determinerebbe una variazione del titolare della posizione di concorrente nella gara e/o di controparte della stazione appaltante nel contratto pubblico che, per l’appunto, è in capo al consorzio. E, a supporto di questa tesi, fa appello al disposto normativo dell’art.48 che ammette, in gara e/o in sede di esecuzione, sia la sostituzione di consorziata esecutrice con altra consorziata, sia la sostituzione delle imprese raggruppate in ATI;  ossia sostituzioni che concretizzano rispettivamente variazioni meramente interne correlate al rapporto interorganico o addirittura variazioni della contitolarità della posizione giuridica di concorrente o controparte della stazione appaltante in un contratto pubblico.

In realtà le cose non stanno proprio così e l’invocato art. 48 del Codice dei contratti non pare poter essere interpretato in modo così benevolo per ‘cambiare le carte in tavola’ in danno degli altri concorrenti e a totale beneficio del consorzio (in)stabile aggiudicatario.

Il comma 7-bis dell’art. 48 del Codice dei contratti pubblici ammette, sì, la designazione ai fini dell’esecuzione dei lavori o dei servizi di un’impresa consorziata diversa da quella indicata in sede di gara ma solo a determinate condizioni:

  • che sussistano le ragioni indicate ai successivi commi 17, 18 e 19 o per fatti o atti sopravvenuti,
  • e che la modifica soggettiva non sia finalizzata ad eludere la mancanza di un requisito di partecipazione in capo all’impresa consorziata.

E non residuano motivazioni, ragionevolmente sostenibili, per ritenere ammissibile un’allegra e svincolata sostituzione dell’impresa designata se non nelle sole ipotesi contemplate dalla Legge, in analogia con quanto accade per le mandanti e/o la mandataria nel contesto dell’ ATI (tanto più per l’espresso richiamo ai commi 18 e 19, D.Lgs. 50/2016).

Il raggruppamento temporaneo di impresa, in realtà, non è altro che la concretizzazione, per una specifica gara, di quella struttura ‘stabile’ che i consorzi di cui stiamo discutendo dichiarano di prefiggersi in via strategica e continuativa; e, al di là della distinta soggettività loro riconosciuta, il ruolo e la posizione delle consorziate non può essere svilita a tal punto da ritenerle liberamente intercambiabili anche in ipotesi diverse da quelle tipizzate dalla normativa (fallimento, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione controllata, amministrazione straordinaria, concordato preventivo ovvero procedura di insolvenza concorsuale o di liquidazione, etc. etc.)

Né, soprattutto, i “fatti o atti sopravvenuti” possono essere spiegati come un facile escamotage per by-passare il divieto di cessione d’appalto o costituire uno schermo per chi opera di fatto come un general contractor.

Tentiamo di spiegarci più chiaramente.

La categoria residuale, qual è quella degli “atti o fatti sopravvenuti”, non può essere interpretata in modo estensivo fino a ricomprendere qualsiasi evenienza o dipendere dalle scelte (più o meno costruite a tavolino) dalla governance del consorzio.

In pratica, al consorzio stabile che abbia partecipato in proprio e si sia aggiudicato l’appalto non può essere consentito di agire come un contraente generale; se ha seriamente proposto un’offerta come autonomo operatore economico non può (o, almeno, non dovrebbe poter) guardarsi al proprio interno, rendersi conto che non c’è nessuna consorziata disponibile ad eseguire i lavori (tanto più per un ribasso troppo elevato e poco remunerativo) e, quindi, andare in cerca per l’Italia di qualche operatore ‘affamato’ disposto ad entrare al suo interno perché  allettato da un appalto servito su un piatto di argento.

Una stazione appaltante seria (e, per essa, pubblici funzionari preparati e incorruttibili) dovrebbero pretendere che, in questo caso, il consorzio esegua direttamente i lavori allo stesso affidati grazie alla più volte citata “comune struttura di impresa”; e, quindi, avvalendosi degli operai, dei mezzi, dei macchinari e di quant’altro occorra dei propri consorziati che (giova ricordarlo) si sono, un tempo, solennemente impegnati dinanzi a un notaio a “operare in modo congiunto nel settore dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture per un periodo di tempo non inferiore a cinque anni”.

Nel caso in cui, invece, il medesimo consorzio stabile abbia partecipato designando una o più imprese consorziate e si verificassero le ipotesi previste dai commi 17, 18 e 19 (o altri fatti o atti sopravvenuti che rendano impossibile l’esecuzione da parte di tali consorziate) le alternative sono due e due soltanto:

  • la sostituzione con altre consorziate qualificate purché aderenti alla compagine consortile già prima dell’indizione della gara e che non abbiano concorso autonomamente;
  • oppure l’esecuzione in proprio da parte del consorzio, sempre grazie all’istituita “comune struttura di impresa”.

Aprire le porte del consorzio a nuovi consorziati (reperiti sul ‘mercato nero’ degli appalti grazie alla ‘distrazione’ di RUP e direttore dei lavori) ed incaricarli dell’esecuzione dei lavori dopo che la gara sia stata avviata non solo rischia di apparire una trovata ingegnosa per evitare la revoca dell’aggiudicazione (o peggio la risoluzione contrattuale) ma, soprattutto, espone al rischio di una serie di gravi reati tra i quali i due principali sono:

  • a carico degli organi del Consorzio stabile, il delitto previsto dall’art. 21 della L. 646/1982 che punisce “chi, avendo in appalto opere riguardanti la pubblica amministrazione, concede anche di fatto, in subappalto o a cottimo, in tutto o in parte, le opere stesse, senza l’autorizzazione dell’autorità competente”, e
  • a carico del RUP e del DL, il delitto disciplinato dall’art. 74 del D.Lgs. 159/2011, ovvero il fatto del pubblico amministratore, funzionario o dipendente dello Stato o di altro ente pubblico ovvero del concessionario di opere e di servizi pubblici che consente la conclusione di contratti o subcontratti in violazione dei divieti previsti dall’articolo 67 dello stesso Codice.

Ove ciò non basti, occorre rammentare che la stessa ANAC – Autorità Nazionale Anticorruzione ha espressamente chiarito, sin dal 2017, che i consorzi stabili possono assegnare le prestazioni oggetto del contratto d’appalto ai soli consorziati per i quali, in fase di presentazione dell’offerta, hanno dichiarato di partecipare per cui ogni ulteriore affidamento ad altre imprese, soprattutto se consorziatesi successivamente all’espletamento della gara, devi ritenersi illegittimo”.

Più chiaro di così …

Inutile tentare di appellarsi allo scopo mutualistico e alla regola c.d. regola della porta aperta tipico dei consorzi ordinari (e non di quelli stabili, neppure nominati dal codice civile), difficile cercare di trovare una giustificazione sulla base di presunzioni, libere interpretazioni o improbabili analogie con le ATI: un’impresa entrata nel consorzio stabile in una fase successiva all’avvio della qualificazione in una determinata gara non può né essere designata per i relativi lavori né sostituire quella originariamente indicata nel contesto di quella gara o del relativo contratto pubblico in corso di esecuzione.

Ed infine, una domanda per tutti coloro che non condividano la stesso nostro punto di vista: che senso logico, ancor prima che giuridico, avrebbe il divieto di subappaltare i lavori a chi abbia partecipato alla procedura di gara (articolo 105, comma 4) quando si volesse ammettere la possibilità che quello stesso terzo concorrente potrebbe eseguire il 100% dei lavori semplicemente aderendo al consorzio aggiudicatario?

AppaltiLeaks® – Riproduzione riservata – 29 marzo 2021

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