Danno all’Erario per gli affidamenti relativi alla gestione dell’anticorruzione.

La Corte dei Conti ha emesso una sentenza storica che speriamo non rimanga isolata. E’ il momento che l’ANAC avvii un’indagine su tutto il territorio per capire cosa è successo in questi anni, per verificare la regolarità dei relativi affidamenti e, soprattutto, per escludere il rischio che l’anticorruzione inizi a costare quanto la corruzione. 

Come tutti sanno, grazie alla Legge 6 novembre 2012, n. 190, si è venuto a creare un vero e proprio business intorno alla materia della prevenzione e del contrasto alla corruzione nelle pubbliche amministrazioni ed il popolo dei “professionisti dell’anticorruzione” annovera, oggi, al suo interno professionalità appositamente formate (come i partecipanti, ad esempio, alla Summer School of Integrity presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa realizzata in collaborazione con l’ANAC e Transparency International Italia) ma, anche, improvvisati autodidatti o pseudo consulenti; soggetti, questi ultimi, che – invogliati dalle vaste praterie aperte di questo nuovo mercato o dalla conoscenza personale di qualche Amministratore delegato o Responsabile per la prevenzione della corruzione –  intravedono facili guadagni in cambio di vagonate di carta ciclostilata scaricata da internet e riutilizzata più volte.   

E, in questo contesto, l’utilizzo di inglesismi del tipo integrity management, risk analysis, risk assessment, risk treatment, etc. non solo favorisce la lievitazione dei compensi ma, cosa più pericolosa, alimenta la falsa idea che questo tipo di servizio debba essere ricercato necessariamente all’esterno dell’Ente a rischio; ovviamente a caro prezzo e, quindi, a carico dei cittadini.

Basterebbe, infatti, riflettere che con il termine ‘risk assessment’ (mal pronunciato dai tanti che, già, hanno difficoltà a cimentarsi con un italiano corretto) non si intende altro che la ‘valutazione del rischio’ ossia la determinazione quantitativa o qualitativa del rischio associato ad una situazione ben definita e ad una minaccia conosciuta (detta “pericolo”); che in questo caso è la corruzione.

Per carità, non vogliamo assolutamente sostenere che tale attività possa essere efficacemente svolta da chiunque o che non sia doveroso affidarla ad esperti capaci di scongiurare (o, quantomeno, attenuare) il pericolo della corruzione, ma occorre chiarire che, in questa specifica materia, gli spazi per la solita ‘esternalizzazione’ sono davvero limitati.

Come ha, infatti, censurato la Corte dei Conti, la scelta di far effettuare l’analisi del rischio all’esterno, da parte di un soggetto terzo (per il quale la normativa non prevede, tra l’altro, alcuna specifica qualificazione) appare in contraddizione con la norma dell’art.1, comma 8 della legge 190/2012 che prevede, espressamente, il divieto di redigere il piano anticorruzione da parte di soggetti esterni.

Pur non escludendo, in via di principio, che una parte della mappatura dei rischi possa essere oggetto di affidamento a terzi, l’elaborazione del Piano di Prevenzione della Corruzione costituisce una mission strategica dell’Ente che deve essere connaturale alla stessa organizzazione”: questo il principio statuito con la Sentenza n.269/2018 che vi invitiamo a leggere integralmente.

E, soprattutto, “Non convince l’affermazione della difesa che la mappatura del rischio sarebbe un elemento prodromico alla redazione del piano. Infatti, l’analisi dei rischi è un aspetto fondamentale del piano stesso e ne costituisce una delle componenti più significative, secondo quanto  previsto dall’ANAC nei propri modelli. Nel caso in esame non vi è nessuna indicazione nella parte motiva della delibera che giustifichi la scelta di rivolgersi ad un soggetto estraneo all’amministrazione. Del resto, non si rinviene negli atti neppure l’indicazione dell’assenza di personale interno adeguato per lo svolgimento dell’attività in esame, attività che, non essendo occasionale ma continuativa, avrebbe richiesto, quanto meno, l’affiancamento a fini formativi di personale interno con il soggetto esterno preposto alla prima redazione della perizia. Di tutto ciò, si ribadisce, non vi è traccia nel processo decisionale esposto dalla convenuta nella propria determina”.

Questa vicenda giudiziaria ci offre però lo spunto per svolgere una riflessione parallela. La cronaca giudiziaria testimonia, ogni giorno, che i piani anticorruzione, i modelli 231, gli audit interni, i protocolli di legalità, i codici etici, i regolamenti interni ed i manuali di qualità si sono dimostrati, sostanzialmente, inefficaci e sono serviti (nella stragrande maggioranza dei casi) più a creare poltrone, affidare lauti incarichi esterni ed a costruire un archivio di dossieraggio da usare al momento opportuno nella quotidiana lotta di potere all’interno della stazione appaltante che a reprimere l’illegalità. E gli arresti dal Nord al Sud confermano, senza possibilità di smentita, che nulla è cambiato dalla Tangentopoli degli anni ’90 tranne il fatto che gli scandali, oggi, coinvolgono in modo imbarazzante anche la magistratura ed i massimi vertici degli organi di polizia giudiziaria.

Il vero pericolo da evitare è, quindi, la “frode interna” (di cui la corruzione è, solo, una delle eventuali componenti) che può essere definita come l’abuso del proprio ruolo per l’arricchimento personale (e/o del proprio “sponsor” politico o gerarchico) o il porre intenzionalmente in essere qualsiasi atto illegale in contrasto con l’interesse pubblico perseguito dalla azienda appartenenza; un rischio molto più ampio per affrantare il quale occorre il coraggio di ammettere che alcuni comportamenti sono di gran lunga più gravi di una cassetta di champagne ricevuta a Natale…

Opacità e misteri nella gestione delle società partecipate, oscure partnership in Medio Oriente, assunzioni irregolari di dirigenti (laureati e non), dubbi sulla regolarità e la trasparenza degli appalti, accordo transattivi con dipendenti reo confessi per agevolare i relativi patteggiamenti, uso distorto dell’accordo quadro, rilascio di discutibili autorizzazioni per la cessione di finti rami d’azienda, alchimie di bilancio, contabilità redatte dalle stesse imprese e poi “discusse” al momento della maturazione degli stati di avanzamento, contenziosi lasciati lì ad autoalimentarsi per tutta la durata dell’appalto nel tentativo di poter far perdere memoria delle pre-innescate carenze progettuali, perizie di variante opportunamente suggerite dall’esecutore per recuperare gli insostenibili ribassi di aggiudicazione e collaudi mai definitivamente conclusi (etc. etc. …): questi sono gli aspetti che nessun consulente dell’ultim’ora potrà mai scongiurare con qualche oretta di formazione o proiettando una colorata slide dinanzi ad una platea di distratti dipendenti desiderosi di capire, soltanto, come aggirare o non rispettare l’ennesima procedura interna.

Grazie alla proliferazione dei sistemi di controllo ed al timore di veri controllori – sulle fondamenta di una sempre più opaca discrezionalità della fase di assegnazione dell’appalto – si è progressivamente rafforzata la possibilità che la realizzazione del progetto rappresenti una quotidiana occasione di illecito comportamento dei soggetti preposti alla conduzione dell’appalto (anche non corrotti). Tutte le fasi relative alla gestione dell’appalto rappresentano, infatti, altrettanti capitoli dove la decisione tecnico-amministrativa può essere utilmente addomesticata e piegata e le aree di rischio (non necessariamente corruttive) di tali processi sono ben note a tutti coloro che lavorano all’interno della stazione appaltante.

Perché, quindi, rivolgersi all’esterno per pagare qualcuno che riporterebbe i termini della questione sul piano teorico-formativo? Perché spendere soldi dell’Erario per “sensibilizzare sensibilizzare e coinvolgere il vertice aziendale sui temi della cultura e gestione del rischio e dei controlli”  (vedasi, ad esempio, questo affidamento del 2017) piuttosto che incaricare qualcuno (ovviamente esterno all’ente incriminato) di verificare se le gravi accuse contenute in un’interrogazione parlamentare sono fondate? 

La realtà è sotto gli occhi di tutti e, tranne casi episodici, è provato che i sistemi di controllo interno, i collegi sindacali e, perfino, gli organismi di vigilanza non sono mai stati capaci di disvelare le reali patologie funzionali delle proprie strutture; strutture sapientemente create e rafforzate grazie ad anni di stratificazione organizzativa tutta preordinata a garantire la perpetuazione dell’assenza di un reale presidio dei vari processi tecnico-amministrativi.

Un top management ‘sano’ ed incorruttibile che, davvero, volesse perseguire le finalità della Legge 6 novembre 2012, n. 190, dovrebbe assumere soltanto una scelta strategico-operativa: quella di aprire i propri archivi e consentire ad fraud auditor esterno esperto di poter indagare, senza vincoli o limitazioni di sorta, in ogni anfratto della propria organizzazione. Ogni aspetto tecnico, amministrativo o legale della commessa dovrebbe poter analizzato per accertare l’esistenza e la dimensione di tutti i sistemi illeciti “a bassa tensione” che caratterizzano le varie fasi di vita di qualsiasi contratto pubblico: finanche quelli relativi alla gestione dell’anticorruzione. 

Tutti gli atti del lavoro, del servizio o della fornitura (dalla fase della programmazione e progettazione a quella del collaudo) così come le perizie di perizie di variante, gli accordi bonari e gli atti contabili dovrebbero poter essere scandagliati e poi portati sul tavolo del consiglio di amministrazione della stazione appaltante (e subito dopo alla Procura della Repubblica ed alla Corte dei Conti) per quello che sono, illustrando nei minimi dettagli “il dietro le quinte” di quello appare.

Ebbene, se tutto questo è vero (com’è sicuramente vero) sarebbe il caso che l’ANAC avviasse un’ampia indagine ispettiva, a livello nazionale, per verificare se si siano verificate fattispecie analoghe a quelle censurate e sanzionate dalla Corte dei Conti e per escludere che, oltre al costo delle frodi interne non si stia, pericolosamente, aggiungendo anche quello per far arricchire, a danno dell’Erario, i “professionisti dell’anticorruzione”.

 

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